La situazione tedesca è catastrofica, e se vi accontentate dei media mainstream francesi, probabilmente non lo sapete.
Pubblicato il 2 ottobre 2025 da pgibertie
In effetti, la stampa francese, fissata sui piccoli alti e bassi della politica nazionale, sembra poco interessata a ciò che accade nel resto del mondo. Ci sono titoli occasionali sulle buffonate di Trump dall’altra parte dell’Atlantico, ma l’economia non è certo un argomento che interessa la stampa francese o, se vogliamo, il popolo francese.
Oh, e per chi li cerca, ci sono alcuni articoli che spiegano il cattivo momento di questa o quella azienda, il possibile impatto di una nuova legislazione inventiva promossa da un’Unione Europea a ruota libera. E naturalmente, quando si tratta di spingere la tassa Zucman e altre sciocchezze socialiste, la stampa è sul ponte.

Ma quando si tratta di spiegare che la Germania è al collasso economico, ci sono pochissimi articoli.

Eppure la Germania ha perso 125.000 posti di lavoro nell’industria negli ultimi due mesi. Questa cifra, di per sé mostruosa e sorprendente per la velocità con cui è stata raggiunta, non dà necessariamente la misura completa del disastro. Tuttavia, i dettagli danno un’idea più precisa dell’entità del problema: nell’ultimo anno, infatti, le case automobilistiche hanno perso 111.400 posti di lavoro: Volkswagen 35.000, Mercedes-Benz 40.000, Audi 7.500, Ford a Saarlouis 2.900, Daimler Truck 5.000, ZF Friedrichshafen Group (fornitore di autoveicoli) 14.000, Bosch con Continental e Schaeffler 7.000. Nel settore ferroviario e dei trasporti, Deutsche Bahn ha perso 30.000 dipendenti e DB Cargo 5.000. Deutsche Post ha perso 8.000 posti di lavoro e Commerzbank 3.900. La SAP (software gestionale) sta licenziando 3.500 dipendenti in Germania e 10.000 in tutto il mondo.
Infine, nel settore dell’acciaio – e questo è particolarmente illuminante vista la storia tedesca – Thyssenkrupp ha licenziato 11.000 persone, pari a circa il 40% del suo organico, unendosi ad altri colossi industriali come Bosch e Continental, tutti ultracentenari. In effetti, una vera e propria ondata di aziende centenarie sta attualmente lottando per la propria sopravvivenza: Mayer & Cie (1905), Brüder Schlau (1921) e Gärtner Pötschke (1912) hanno tutte presentato istanza di fallimento.
La Galeria, le cui origini risalgono al XIX secolo, ha evitato per un soffio il fallimento.
La crisi delle “Traditionsunternehmen” tedesche (“imprese tradizionali” – aziende che esistono da molto tempo e che possono vantare una lunga tradizione, spesso contraddistinta da valori come la qualità, la sostenibilità o i legami familiari, e che si distinguono da una giovane start-up) dimostra ora che il patrimonio da solo non è sufficiente a proteggere dalle pressioni strutturali globali degli alti costi dell’energia, della disruption digitale e della concorrenza globale.
In effetti, queste aziende e la buona salute economica della Germania poggiavano essenzialmente su due pilastri principali: energia a basso costo dalla Russia e manodopera a basso costo dall’Europa orientale. A ciò si aggiungeva la prospettiva di stabilità, soprattutto in termini geopolitici, con una “Pax Americana” garantita dall’ombrello nucleare americano.
Tuttavia, questi tre elementi sono scomparsi piuttosto rapidamente: l’energia a basso costo non esiste più, spazzata via dall’instabilità geopolitica. E le ondate migratorie che l’Europa sta vivendo hanno ampiamente minato i paradigmi della classe operaia.
E al di là della questione geopolitica, non possiamo ignorare la “transizione ecologica” che sta trasformando una difficoltà temporanea causata dalla guerra in Ucraina in un vero e proprio massacro industriale duraturo: è questa “transizione” che sta imponendo scelte energetiche di cui ci stiamo accorgendo molto tardi – nonostante i ripetuti avvertimenti dei liberali che capiscono davvero qualcosa di economia – che si stanno rivelando calamitose.
Sì, l’energia verde è un’energia estremamente costosa. E energia costosa significa prodotti più difficili da produrre, molto più costosi, meno competitivi e, in definitiva, meno posti di lavoro.
Il bilancio è chiaro: mentre in Francia le industrie vengono smantellate o semplicemente vendute all’estero a prezzi stracciati per motivi ideologici e perché il costo del lavoro è stato mantenuto proibitivo nel tentativo di mantenere un modello sociale a tutti i costi, in Germania le industrie crollano per motivi ancora più idioti basati sul greenwashing, portando la ThyssenKrupp, ad esempio, a essere acquistata dagli indiani.
Queste scelte politiche ideologiche suicide hanno anche un impatto diretto sui privati, con un allarmante aumento del numero di tedeschi che hanno difficoltà a pagare le bollette del gas e dell’elettricità.
Per un Paese che, oltretutto, sta affrontando un vero e proprio “precipizio demografico”,
Questo non fa ben sperare per il futuro.
La Germania era più o meno la potenza industriale d’Europa, ma ha accettato la scommessa di invecchiare, deindustrializzare e perdere la svolta della robotica e dell’intelligenza artificiale per garantire che le sue gru da costruzione sui cantieri in stallo siano superbamente a zero emissioni di carbonio. Audace, vero? Ora le previsioni della Bundesbank sembrano la copertina di un album black metal con lo 0% di crescita, lo 0% di sorrisi e il 100% di denti stretti.
Va da sé che il crollo della Germania non è di buon auspicio per il resto dell’Europa, soprattutto per una Francia praticamente in bancarotta.


